Quando ci si affaccia al mondo editoriale nei modi tradizionali (che, fino a oggi, sono quelli che conosco), si presenta spesso una questione dibattuta: l’opportunità o meno di ambientare all’estero un romanzo da parte di un autore italiano, soprattutto esordiente.
È un dilemma che forse riguarda più la narrativa generalista, o mainstream, ma viene posto anche a chi si dedica alla scrittura di genere.
Ci sono filoni che per loro natura ne sono meno toccati, come il fantasy, l’urban fantasy o la fantascienza, benché molti autori italiani abbiano ormai provato a sperimentare e nazionalizzare con discreto successo anche elfi e vampiri in terra italica.
Non credo sia un paletto che si presenta a chi ricorre all’autopubblicazione, campo di cui conosco poco. Deduco che non dovendo passare dal giudizio di chi è nel settore, ma solo da quello dei lettori, questa legge non scritta venga ignorata. Mi piacerebbe conoscere i pareri sulla questione da questo tipo di autori.
Quello che so è che almeno fino al 2012, anno di uscita del mio primo romanzo, questo fumoso ostacolo ha incrociato la mia strada verso la pubblicazione nelle varie valutazioni a cui lo stesso veniva sottoposto.
Da allora, in soli cinque anni, i cambiamenti con l’avvento dell’autopubblicazione sono stati molti, ma credo che nelle polverose menti di qualche editore questo concetto astratto rimanga ancora. E ogni tanto sorge qualche polemica a rinfocolarlo, e la fatidica domanda torna fuori:
gli autori italiani possono ambientare all’estero le loro storie?
Oppure, come le case editrici e i corsi di scrittura insegnano, è preferibile scrivere di ciò che si conosce e ambientare nel nostro paese?
Ci sono alcuni aspetti, a mio avviso, da tenere in considerazione. Non conosco le percentuali esatte, ma se penso alle migliaia di libri che ogni anno vengono tradotti, in prevalenza dal mercato anglosassone, i lettori sono ormai talmente esterofili per cui ambientazioni e nomi italiani diventano comici paragonati a quelli di metropoli estere o di protagonisti di thriller, horror, spionaggio e gialli.
Occorre tanta fiducia e investimento da parte di un editore nel proporre mondi diversi in questi generi. Una dimostrazione è la gavetta che pure i giallisti scandinavi hanno dovuto fare nel nostro paese, sdoganati e amati solo dopo diversi anni dalle prime pubblicazioni in Italia, sebbene il settore del giallo tiri moltissimo e abbia grandi esempi italiani di successo.
Spiace dirlo, ma un certo tipo di lettore, dei già scarsi nel nostro paese, è pigro e abitudinario, non ama sperimentare e non accoglie con lo stesso gusto e considerazione, soprattutto nella narrativa di genere, nomi e luoghi italiani.
Non sono una storica né un’analista, non so se questa forte esterofilia sia dovuta al dominio di mercato, e relativa colonizzazione delle forti case editrici anglosassoni, o se noi ne soffriamo particolarmente rispetto ad altri paesi europei non anglofoni a causa della proibizione che ci è stata imposta durante il fascismo. E se ne comprendo la necessità e l’impennata del dopoguerra, non ne capisco il disequilibrio attuale.
Non so dare una spiegazione da addetta ai lavori, ma mi pongo spesso questa domanda.
Dal punto di vista di un autore, e non solo, la storia deve essere valida, ovvio. Senza questo si va poco lontano. Partendo da queste basi c’è chi ambienta in Italia, storico o contemporaneo che sia, per scelta, per ricchezza del nostro passato o per i luoghi del nostro paese.
Per quanto mi riguarda, quando mi arriva l’idea di una storia da raccontare, non mi pongo troppo il problema perché spesso sopraggiunge il pacchetto completo di personaggi e luogo di ambientazione. Per adesso è accaduto così, sia per i due romanzi che ho pubblicato sia per i progetti a cui sto lavorando.
A volte ci sono storie che devono per forza avere quel tipo di ambientazione, anche straniera, poiché ispirate da un fatto, da un posto, da qualcosa che hai visto e ti ha colpito.
Vivendo in una città di provincia, questo non è molto apprezzato. O la mia è particolare – e un po’ lo è credetemi – dato che con vero spirito campanilistico esalta molto chi ambienta i suoi scritti qui, per cui, se non parli dei luoghi comuni che ci caratterizzano, ma hai uno sguardo oltre il solito orizzonte, sei ignorato.
A ogni modo, anche con tutta la buona volontà, quando ho iniziato a scrivere Il senso interno del tempo, l’idea è arrivata per intero, comprensiva di ambientazione. Dopo le prime letture professionali a cui l’ho sottoposto, mi è stato suggerito da più fonti di rispettare la famosa legge non scritta, ho provato a cercare un’alternativa, ma chi si sarebbe mai filato un famoso attore italiano? E quale prototipo sarebbe venuto in mente a chi lo leggeva... non oso immaginarlo!
Sono arrivata perfino a ipotizzare un cambio di professione del protagonista, rockstar italiana, artista visivo, poiché alcune tematiche del lavoro artistico di Nathan e del suo rapporto con esso, dovevano rimanere ed erano importanti per definirne il personaggio. Niente mi convinceva, perché ambientare in Italia quel tipo di professione non sarebbe mai stato ai massimi livelli come negli USA.
Il compromesso che ho trovato è stato quello di riscrivere il personaggio di Eva, che in origine era americana, e italianizzarla, famiglia compresa, con tutte le difficoltà: riconoscimenti, lauree, permessi lavorativi di soggiorno e tutto ciò che comporta la vita di una persona che studia e lavora all’estero.
Non ho la certezza matematica che sia stato questo a renderne possibile la pubblicazione o se il romanzo avrebbe funzionato lo stesso lasciando tutto com’era prima, fatto sta che nei nuovi, ulteriori invii alle case editrici è stato accettato da un editore indipendente.
A corollario di tutto questo, vorrei con ironia far notare la coerenza di molte case editrici che, dopo l'uscita de Il senso interno del tempo, hanno pubblicato romanzi di autrici italiane ambientati all'estero e con protagonisti stranieri; i titoli sono molti - basta scorrere le classifiche di Amazon - dove, evidentemente, non si è ritenuto necessario modificarne l'ambientazione, andando a sfatare così questa legge non scritta.
Che cosa se ne deduce, quindi? È vero che, come ho già scritto, con l’autopubblicazione l'editoria è molto cambiata, ma credo di poter affermare, dopo aver frequentato un po’ questo settore, che vale tutto e il suo contrario e che la legge non scritta sull’ambientazione conti quanto il due di briscola rispetto al fattore C.
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