Nell’intervista che ho rilasciato per il blog Romanticamente Fantasy Sito, fra le tante domande relative alla mia ultima uscita, Niente è come sembra, ce n’era anche una sull’avvenire degli scrittori e dell’editoria. Se, cioè, il self-publishing potesse rappresentare la modalità di pubblicazione più diffusa del futuro.
Ecco che mi è stato offerto un ulteriore spunto di riflessione per ampliare il precedente articolo sull’esperienza di auto-pubblicazione e sull’editoria tradizionale.
Ho riflettuto molto su come rispondere. Benché la mia esperienza da self sia recente, ho molte amiche/colleghe che usano questo metodo da anni, con soddisfazioni alterne, e altre che ancora rimangono saldamente all’interno dell’editoria tradizionale; ovviamente fra noi parliamo, ci confrontiamo e mi giungono esperienze, malumori e soddisfazioni da entrambi i fronti. Tenendo conto di questo piccolo campione, della mia limitata esperienza di pubblicazione, di fiere dell’editoria e di festival letterari cui ho partecipato, la mia risposta ha cercato di inglobare tutti gli aspetti.
Credo che l’editoria tradizionale stia sicuramente rivelando i suoi limiti e, soprattutto, la scarsa dinamicità di adattamento a una realtà molto in evoluzione. Da quello che ho potuto osservare negli ultimi cinque anni, sono cambiate moltissime cose. Il digitale, i social, i blog erano appena agli inizi nel 2012, anno di uscita del mio primo romanzo, Il senso interno del tempo, e poco influenti sulle pubblicazioni, mentre adesso sono fondamentali, tant’è che perfino le grosse case editrici cercano e collaborano con le blogger per il lancio dei libri.
Il self, d’altro canto, rappresenta una democratica opportunità di pubblicazione, ma è privo di filtri professionali come quelli che anche un editore piccolo garantisce (parlo di editoria non a pagamento) e non tutela il lettore sulla qualità dei libri che escono.
Il filtro è a posteriori, insomma.
Quando ho partecipato alle fiere dell’editoria o a convegni dove erano presenti realtà straniere, ho visto l’editoria italiana – rispetto alla straniera, più dinamica e propositiva – arroccarsi sulle sue posizioni, sempre più in crisi ma senza volontà di sperimentazione e rinnovo.
Non è costruttiva e imputa la colpa ai lettori che diminuiscono sempre più, ma non fa nessun tipo di proposta concreta alla scuola o negli ambienti di lavoro affinché si attuino politiche di rieducazione alla lettura dei ragazzi e degli adulti. Si accontenta degli spot sociali del Ministero e degli incentivi economici che lo stesso dà, come se fossero loro stessi enti statali e non imprese private con un reparto commerciale / marketing.
Oltre al calo dei lettori, l’altro grosso spettro della piccola/media editoria è la distribuzione nelle librerie: in mano a pochi colossi che controllano il mercato, raramente un piccolo-medio editore riesce a portare i suoi libri al dettaglio. Già questo, a mio parere, sarebbe uno dei veri ambiti in cui richiedere l’intervento dell’Autorità Garante della Concorrenza.
La faccenda, qualche anno fa, sembrò superata con l’arrivo di Amazon che, però, ha portato altre grane agli addetti ai lavori, abusando della scontistica, delle offerte e dei prezzi. Alla fine, si è incolpato Amazon (che comunque le sue colpe ce le ha) di tutti i danni all’editoria del nostro paese quando, in realtà, il suo avvento ha fatto scoppiare prima del previsto problemi già presenti.
In fondo alla filiera del prodotto libro, ci siamo noi: gli autori italiani, i più sfigati. Sì, lo siamo, perché dei lettori che esistono, molti non leggono autori italiani per partito preso, educati, o sarebbe meglio dire “condizionati” dalla nostra editoria, a sessanta anni di traduzioni eccessive e a un gusto esterofilo, per lo più anglofono, come in molti altri ambiti culturali. E se comprendo la reale necessità nel dopoguerra di conoscere i grandi scrittori stranieri che durante il regime fascista erano stati censurati, nei decenni successivi questa inflazione estera, a volte di obbiettiva scarsa qualità, poteva essere selezionata con maggior cura per lasciare più spazio agli autori nazionali.
Questi sono davvero l’ultima ruota di questo baraccone che, però, senza le loro storie non avrebbe neanche motivo di esistere. A parte pochi fortunati scrittori italiani da migliaia di copie, la maggioranza, anche se sotto contratto con grandi case editrici, è mal pagata, quando lo è più o meno puntualmente, ed è ricattata a firmare accordi assurdi se vuole pubblicare: scordatevi gli anticipi da romanzo americano, in Italia difficilmente si riesce a vivere di scrittura.
Pagare? Pagare il conto di una serie di errori istituzionali, politici, gestionali, che si sono accumulati nei decenni e incastrarsi in questi meccanismi?
Certo, non è assolutamente obbligatorio pubblicare ciò che scrive, ma se ci si vuole far conoscere, se la storia che si racconta è valida, magari dopo aver espletato l’antica sequenza, che quasi nessuno fa più, ormai, invio manoscritto – attesa – nessuna risposta o rifiuto, a più di una casa editrice, si cerca un modo per farla arrivare a chi vuole leggerla.
E la strada che è a portata di mano è di sicuro il self-publishing; del resto, perché non dovremmo provarci? Sono state proprio le grandi case editrici a rompere la regola della selezione per prime, facendo scouting attraverso le auto-pubblicazioni e riproponendole successivamente nella filiera tradizionale.
Io non so se questo incasinato presente rappresenti il futuro dell’editoria mondiale e, in particolare di quella italiana. In tutta sincerità, mi augurerei qualcosa di meglio per gli autori e per il nostro paese, a partire da una seria riforma del settore fino a una tutela del diritto d’autore equa e corretta.
Riconosco, però, che al momento può essere una buona strada, soprattutto se fatta con gli stessi passaggi e la stessa serietà attuati in una casa editrice e, purtroppo, a oggi, una delle poche rimaste percorribili per un autore.
Ecco che mi è stato offerto un ulteriore spunto di riflessione per ampliare il precedente articolo sull’esperienza di auto-pubblicazione e sull’editoria tradizionale.
Ho riflettuto molto su come rispondere. Benché la mia esperienza da self sia recente, ho molte amiche/colleghe che usano questo metodo da anni, con soddisfazioni alterne, e altre che ancora rimangono saldamente all’interno dell’editoria tradizionale; ovviamente fra noi parliamo, ci confrontiamo e mi giungono esperienze, malumori e soddisfazioni da entrambi i fronti. Tenendo conto di questo piccolo campione, della mia limitata esperienza di pubblicazione, di fiere dell’editoria e di festival letterari cui ho partecipato, la mia risposta ha cercato di inglobare tutti gli aspetti.
Credo che l’editoria tradizionale stia sicuramente rivelando i suoi limiti e, soprattutto, la scarsa dinamicità di adattamento a una realtà molto in evoluzione. Da quello che ho potuto osservare negli ultimi cinque anni, sono cambiate moltissime cose. Il digitale, i social, i blog erano appena agli inizi nel 2012, anno di uscita del mio primo romanzo, Il senso interno del tempo, e poco influenti sulle pubblicazioni, mentre adesso sono fondamentali, tant’è che perfino le grosse case editrici cercano e collaborano con le blogger per il lancio dei libri.
Il self, d’altro canto, rappresenta una democratica opportunità di pubblicazione, ma è privo di filtri professionali come quelli che anche un editore piccolo garantisce (parlo di editoria non a pagamento) e non tutela il lettore sulla qualità dei libri che escono.
Il filtro è a posteriori, insomma.
Quando ho partecipato alle fiere dell’editoria o a convegni dove erano presenti realtà straniere, ho visto l’editoria italiana – rispetto alla straniera, più dinamica e propositiva – arroccarsi sulle sue posizioni, sempre più in crisi ma senza volontà di sperimentazione e rinnovo.
Non è costruttiva e imputa la colpa ai lettori che diminuiscono sempre più, ma non fa nessun tipo di proposta concreta alla scuola o negli ambienti di lavoro affinché si attuino politiche di rieducazione alla lettura dei ragazzi e degli adulti. Si accontenta degli spot sociali del Ministero e degli incentivi economici che lo stesso dà, come se fossero loro stessi enti statali e non imprese private con un reparto commerciale / marketing.
Oltre al calo dei lettori, l’altro grosso spettro della piccola/media editoria è la distribuzione nelle librerie: in mano a pochi colossi che controllano il mercato, raramente un piccolo-medio editore riesce a portare i suoi libri al dettaglio. Già questo, a mio parere, sarebbe uno dei veri ambiti in cui richiedere l’intervento dell’Autorità Garante della Concorrenza.
La faccenda, qualche anno fa, sembrò superata con l’arrivo di Amazon che, però, ha portato altre grane agli addetti ai lavori, abusando della scontistica, delle offerte e dei prezzi. Alla fine, si è incolpato Amazon (che comunque le sue colpe ce le ha) di tutti i danni all’editoria del nostro paese quando, in realtà, il suo avvento ha fatto scoppiare prima del previsto problemi già presenti.
In fondo alla filiera del prodotto libro, ci siamo noi: gli autori italiani, i più sfigati. Sì, lo siamo, perché dei lettori che esistono, molti non leggono autori italiani per partito preso, educati, o sarebbe meglio dire “condizionati” dalla nostra editoria, a sessanta anni di traduzioni eccessive e a un gusto esterofilo, per lo più anglofono, come in molti altri ambiti culturali. E se comprendo la reale necessità nel dopoguerra di conoscere i grandi scrittori stranieri che durante il regime fascista erano stati censurati, nei decenni successivi questa inflazione estera, a volte di obbiettiva scarsa qualità, poteva essere selezionata con maggior cura per lasciare più spazio agli autori nazionali.
Questi sono davvero l’ultima ruota di questo baraccone che, però, senza le loro storie non avrebbe neanche motivo di esistere. A parte pochi fortunati scrittori italiani da migliaia di copie, la maggioranza, anche se sotto contratto con grandi case editrici, è mal pagata, quando lo è più o meno puntualmente, ed è ricattata a firmare accordi assurdi se vuole pubblicare: scordatevi gli anticipi da romanzo americano, in Italia difficilmente si riesce a vivere di scrittura.
Cosa dovrebbe fare un autore italiano odierno, allora?
Pagare? Pagare il conto di una serie di errori istituzionali, politici, gestionali, che si sono accumulati nei decenni e incastrarsi in questi meccanismi?
Certo, non è assolutamente obbligatorio pubblicare ciò che scrive, ma se ci si vuole far conoscere, se la storia che si racconta è valida, magari dopo aver espletato l’antica sequenza, che quasi nessuno fa più, ormai, invio manoscritto – attesa – nessuna risposta o rifiuto, a più di una casa editrice, si cerca un modo per farla arrivare a chi vuole leggerla.
E la strada che è a portata di mano è di sicuro il self-publishing; del resto, perché non dovremmo provarci? Sono state proprio le grandi case editrici a rompere la regola della selezione per prime, facendo scouting attraverso le auto-pubblicazioni e riproponendole successivamente nella filiera tradizionale.
Io non so se questo incasinato presente rappresenti il futuro dell’editoria mondiale e, in particolare di quella italiana. In tutta sincerità, mi augurerei qualcosa di meglio per gli autori e per il nostro paese, a partire da una seria riforma del settore fino a una tutela del diritto d’autore equa e corretta.
Riconosco, però, che al momento può essere una buona strada, soprattutto se fatta con gli stessi passaggi e la stessa serietà attuati in una casa editrice e, purtroppo, a oggi, una delle poche rimaste percorribili per un autore.
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